Der Tod in Venedig

La spiaggia offriva un aspetto poco accogliente. L’ampio specchio d’acqua bassa delimitato dal primo banco di sabbia era increspato da rifluenti brividi di schiuma. Un’atmosfera d’autunno, di cose sopravvissute, pareva aduggiare quel luogo di svaghi un tempo così vivido e colorito, ora quasi deserto; anche la pulizia della rena era dubbia. Una macchina fotografica, apparentemente senza padrone, stava sul treppiede al margine delle onde; il vento, ora più fresco, faceva svolazzare e sbattere il panno nero che la ricopriva.

(Thomas Mann, La morte a Venezia, trad. di Emilio Castellani)

Dal film di Visconti esala – così egli volle, non è un biasimo! Egli volle produrre codesto effetto di iperrealistica ambivalenza! – un sovraccarico di grottesco e di cattivo gusto, un odor di cadavere contraffatto da profumi pesanti. La musica di Mahler, assieme alla reminiscenza del testo manniano, al rivolo della tinta che cola sul viso di Aschenbach, al rumore sordo, volgarissimo, del corpo che cade: una buffoneria straziante. Un risultato potentissimo, manniano e wagneriano insieme, ma anche melodrammatico.

E si sopravvive.

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