Nei primi anni ’60 Pasolini tenne sul settimanale Vie Nuove una rubrica di corrispondenza con i lettori (“Dialoghi con Pasolini”). Oggi mi è capitato di leggere l’accoppiata: lettera (anonima) – risposta di Pasolini, che riporto integralmente di seguito. Mi hanno entrambe colpito: la prima, perché, pur risalendo a mezzo secolo e più fa, ha uno stile che mi par riconoscere pressoché immutato nei pezzi dei pubblicisti di destra, che amano sfoggiare una tanto più esibita quanto più fessa elevatezza di cultura assieme a una lepidezza che si vuol arguta e corrosiva, ed è invece corriva come le barzellette costruite a sfondo sessuale. La risposta di Pasolini perché acuta lo è davvero, e vera. Ecco, giudichi da se chi voglia leggere:
Dannunziani in pantofole
Le dirò innanzitutto che ignoravo, fino a pochi mesi or sono, la Sua esistenza, il Suo nome e la Sua attività.
Ma ora, prima da qualche articoletto di cronaca nera e nerastra, poi da qualche «sfottitura» alla radio, poi ancora dalla lettura di qualche Suo scritto ho saputo della Sua esistenza e che Lei sarebbe uno scrittore, un critico, un poeta, ecc … E va bene.
Uno più uno meno non guasta ed anche se i Suoi atteggiamenti in sede estetico-letteraria; la Sua ben modesta dimestichezza con quello che è lo scrivere in un italiano non da lettori di Vie Nuove; i Suoi giudizi categorici e senza appello su cose, uomini e problemi che Ella non può conoscere, valutare e comprendere, mi lasciavano un po’ dubbioso sull’uomo e sullo scrittore (chiamiamolo così); d’altra parte certi Suoi «a fondo», certe Sue azzardatissime e fondamentalmente ingenue affermazioni, divertivano il vecchio polemista che sonnecchia e sogghigna in me.
Ma in queste ultime settimane, fra Lei personalmente (con quella iconoclastica e addirittura paradossale risposta a quel buon uomo di Teano che, bontà sua, chiede pietà per D’ Annunzio al Sig. P.P. Pasolini…) e la recensione del Bo ad un Suo libro apparsa su un recente Europeo, Lei ed il Suo esegeta, starei per dire il Suo agiografo, avete superato la misura. Altro che «crocianesimo generico e aberrante», altro che «disgusto stilistico da letterato a letterato» e simili corbellerie. Meno male, Sig. Pasolini, che il Vate è morto altrimenti con un aggettivo la ridurrebbe in poltiglia.
Pur con la sua retorica (ma era la Sua), pur con certe forme che a Lui si possono perdonare, pur con certi atteggiamenti che sanno di narcisismo, D’Annunzio è D’Annunzio e tale rimarrà nei secoli e ci vuol altro che cento Pasolini e mille Bo (e Ungaretti e Montale e Quasimodo e, insomma, chiunque abbia preso la penna in mano in quest’ultimo sessantennio) per poter fare un confronto, almeno per quanto riguarda la letteratura italiana.
E non voglio abbandonarmi a citazioni, non voglio infarcire la mia prosa di aggettivi, non voglio accennare a giudizi di letterati di primo piano, non voglio ricordare l’enorme patrimonio linguistico, il cadenzato scintillio di sue prose e poesie, il drammaturgo e l’Uomo del Timavo e del Carnaro: lascio a Lei e al suo contorto esegeta Bo il turibolo dell’incenso per altri Dei. Questo ha un altare troppo alto perché il mio povero incenso possa raggiungerlo, ma, La prego, abbia almeno Lei il senso delle proporzioni. Lei vede, Signor Pasolini, che io, non firmando, non esco dai limiti di una serena ed educata polemica, chiamiamola rettifica, e quindi non Le dico altro che vorrei dirLe se firmassi.
Se non firmo è perché il mio nome non Le direbbe nulla e perché non voglio accomunarlo al Suo e perché è dal 1944 che non scrivo più su un giornale o una pubblicazione e non voglio certo fare ora una «rentrée» su simile foglio. Ma Ella sente da come Le scrivo che non sono il solito «vile anonimo» e se pubblicherà la presente — tempo e voglia permettendo — Le scriverò ancora giacché tanto lei che il Suo amico Bo (Lei più di lui, per la verità) mi interessate, magari dal solo punto di vista, zoologico.
E giacché ci siamo, cerchi di evitare di fare il piccolo populista in ritardo di due generazioni, riveda e corregga il suo zoppicante italiano da Università popolare serale, dica al Bo (all’ermetico critico che ama scriver difficile a tutti costi: mi ricorda certe pagine di Celine scritte in «argot» e certe relazioni di giovani aggiornati a qualche congresso di correnti…) di non esagerare perché esagerando si casca nel ridicolo ed il ridicolo seppellisce.
E magari, non sarà male, creda, leggetevi tutti due un po’ di Guicciardini e di Guerrazzi, di Manzoni e di Verga, magari di Baldini e di Panzini, magari di Brocchi e di Gotta (… Non inorridite…), magari di Monelli e di Ansaldo. Mi abbia con i migliori saluti.
M.P.
L’anonimato in cui Lei cordialmente si cela, gentile signore, non è così fitto da nascondere il fatto che Lei è fascista. Nel ’44 ha smesso di pubblicare, e pour cause; poi è rimasto ai margini, e pour cause, e ora di nuovo qui, con tono distaccato, vivace e un po’ bohème a fare l’idealista. Si capisce dunque come lei ami D’Annunzio, si capisce come lei chiami questo poeta «l’Uomo del Timavo e del Carnaro», si capisce come l’irriti Bo, che, durante il periodo fascista, era esattamente il contrario di quello che voi volevate fosse un letterato, e si capisce, infine, come le sia antipatico io, furente nemico della istituzionale stupidità dei fascisti. Quanto a Baldini, a Panzini, Brocchi, Gotta, Monelli e Ansaldo, sono nomi che io le consiglio di scrivere sulla sua lapide.
Caro lettore, osserva un po’ la lettera a cui ho qui risposto in due parole. È un documento abbastanza interessante. Esso testimonia un tipo di fascismo non molto diffuso, eppure essenziale. Non so se il regime di Mussolini avrebbe potuto reggere per tanti anni se la stampa e la radio non avessero potuto contare su un numeroso gruppo di persone simili all’autore di questa lettera Esse rappresentavano il tessuto culturale del fascismo. Ossia a la follia fatta norma.
C’è in questa lettera un profondo e misterioso masochismo. Una persona di una certa cultura (l’anonimo è almeno laureato o diplomato), che conosce la letteratura classica, e bene o male, la storia nazionale, rifiuta in blocco tutta l’esperienza che da tale conoscenza può derivare per umiliarla e annichilirla in una specie di esaltata «riduzione» alla meschinità culturale piccolo-borghese, su cui il fascismo si basava e di cui viveva. Ora è ben nota l’ignoranza dell’italiano medio che pur abbia frequentato le scuole statali: e non c’è da meravigliarsi che tale sua scarsa coscienza culturale fosse pronta ad accettare l’aberrazione ideologica della reazione. Si capisce come un piccolo-borghese ignorante e conformista potesse accettare direi quasi con voluttà i narcisistici «pseudo-concetti» fascisti. Ma la cosa è meno facile da capire quando anziché di un professionista o di un impiegato si tratti di un uomo di cultura, un pubblicista, un giornalista, un letterato: il quale, almeno, dovrebbe possedere gli strumenti elementari per individuare e analizzare delle aberrazioni ideologiche e storiche come quella fascista.
È vero: la cultura italiana della prima metà del Novecento è una ben misera cosa: è un sottoprodotto provinciale della cultura europea post-romantica e decadente. Su questo Gramsci ha scritto delle pagine dal valore assoluto. Il fascismo stesso è un prodotto di tale cultura, ad alto livello. Il superuomo, Wagner, la regressione narcissica a un tipo di vita remota, ellenica o romana, l’esaltazione dell’io, il disprezzo per la massa, la vita inimitabile (eccoci arrivati a D’Annunzio): sono tutti elementi culturali ad alto livello destinati a formare il «gusto» fascista.
Ora, che cos’era un letterato, un professore universitario, un giornalista in orbace? Un fatto umoristico, prima di tutto, se si ha voglia di ridere. Ma in realtà la graduazione psicologica di tale depravazione non è poi così complicata: essa avveniva pressapoco così: il nostro uomo (mettiamo l’anonimo di questa lettera) era alle origini un dannunziano (ossia un decadente provinciale, con la testa piena di prosa d’arte, di narcissismo di cattiva lega, di letteratura classica intesa come gloria nazionale anziché come prodotto storico in evoluzione, insomma di umanesimo corrotto e accademico); il secondo gradino ideale era la trasformazione di tale titanismo sedentario e scolastico in smania d’azione (le imprese patriottiche, le divise, i manganelli, le marce: la riesumazione attiva di un passato morto e sepolto, nella fattispecie il legionario romano, il navigatore veneziano, ecc. ecc.); il terzo gradino… E qui bisogna ricordare che il piccolo-borghese italiano conformista ha come caratteristica principale, insieme alla sete di servilismo, la paura del ridicolo (la lettera dell’anonimo in questione parla chiaro: «… Non esagerate, perché esagerando si casca nel ridicolo ed il ridicolo seppellisce»). Il terzo gradino è dunque una «correzione» — verso la normalità benpensante, piccolo-borghese, «furba» — del mostro dannunziano, del guerriero in orbace. Così tutto va a posto. Il nostro anonimo si è messo la paglietta del «vecchio polemista che sonnecchia e sogghigna in lui»: e sente, con profonda consolazione, che un po’ di vivacità stilistica, un po’ di umorismo, un po’ di scapigliatura, un po’ di bohème, un po’ di cultura classica mettono a posto tutto, rettificano con una serie di correzioni eufemistiche e riduttive, l’eccessiva serietà dell’arcaico e bellicoso uomo ideale fascista. Insomma il nostro anonimo ha l’aria di dire, asciugandosi il sudore allegramente sotto la paglietta, con l’occhio iniettato di ironica felicità: «Ecco, vedete? Non è vero che i fascisti siano dei fanatici esagerati: io accetto tutto il fascismo, Eichmann compreso, certo! Però, io son qui, in paglietta, ho una famigliola e leggo i classici… Il mio odio contro i comunisti è addirittura cordiale! Io coi marxisti ci vado a cena e ci bevo all’osteria! La mia coscienza di tale odio è così profonda e sconfinata che ci rido!».
E così degli uomini di cultura, i cui nomi tuttora in Italia sono coperti di onore e rispetto, si vestivano in orbace, con la scusa che erano poi, a casa, dei dannunziani in pantofole.
Pier Paolo Pasolini. (Vie Nuove. 29 a. XVI, 22 luglio 1961)