Età della vita

All’inizio (sino ai 30 anni, facciamo) sono importanti le cose “importanti”: le Deduzioni Trascendentali, le battaglie napoleoniche, il capitalismo, gli –ismi in genere. (In alternativa: nessuna cosa è importante, che c’è la Morte, il Nulla e consimili orsacchiotti di peluche).

Poi (fino ai 45 ca.) sono importanti i dettagli: l’errore a pag. 45, la caduta del prezzo delle aringhe prima della guerra dei 30 anni, il mugnaio di Pescia che crede nelle streghe.

Intorno ai ’50 sorge la consapevolezza che le cose importanti non cadono in categorie predefinite: non si riconoscono dal suffisso delle parole (-ismo, -ità etc.), non sono né Universali né particolari, o meglio possono essere gli uni e gli altri. S’ha da vedere, caso per caso, e perché e per come; ché coi vademecum (e le patenti di intelligentone) ci coglioni solo te stesso (forse).

 

[N.B. Trattasi di considerazioni di natura empirica; scritte un po’ di tempo fa, oggi mi ricadono sotto gli occhi. Magari non vere, forse sono verosimili. Niente di troppo serio, eh; anzi, un po’ si scherza.]

Pubblicato in Indefinita | Lascia un commento

Teologie elettromagnetiche

Stanford Encyclopedia of Philosophy, voce Rationalism vs. Empiricism.

Scrive Peter Markie:
“For all we know, a deceiver might cause us to intuit false propositions, just as one might cause us to have perceptions of nonexistent objects. Descartes’s classic way of meeting this challenge in the Meditations is to argue that we can know with certainty that no such deceiver interferes with our intuitions and deductions.”

Al termine della Meditatio prima, come è noto, il ruolo di ingannatore è giocato da quello che Descartes chiama “genius aliquis malignus”. E sarà pure, come suggerisce l’ottimo Sergio Landucci, “una controfigura” di Dio: certo il suo (ipotetico) interferire con intuizioni e deduzioni dell’intelletto apre danze e controdanze teologiche. Come ogni controfigura è un servente della figura principale. Delle “nostre intuizioni e deduzioni”, infatti, può dirsi:

“They are infallible, as God guarantees their truth.”

Di interferenza in interferenza: da quella putativamente malevola, mefistofelica, a quella paterna e, anch’essa putativamente, salvifica.
QED

 

 

Pubblicato in Filosofia | Contrassegnato , | Lascia un commento

Animal rationale

Senza commenti

Ma se i buoi avessero mani, e così i cavalli e i leoni,
o con le mani disegnassero o compissero opere al pari degli uomini,
i cavalli simili ai cavalli
e i buoi simili ai buoi
disegnerebbero figure di dei,
e per loro farebbero corpi
foggiati così come i propri sono foggiati.

Gli Etiopi camusi e neri dicono che siano i loro dei
i Traci invece con gli occhi azzurri e i capelli rossi.

[Senofane di Colofone, VI/V secolo a. C.]


Mr. Homo, if he has a good digestion and a sound income, thinks to himself how much more sensible he is than his neighbor so-and-so, who married a flighty wife and is always losing money. He thinks how superior his city is to the one 50 miles away: it has a bigger Chamber of Commerce and a more enterprising Rotary Club, and its mayor has never been in prison. He thinks how immeasurably his country surpasses all others. If he is an Englishman, he thinks of Shakespeare and Milton, or of Newton and Darwin, or of Nelson and Wellington, according to his temperament. If he is a Frenchman, he congratulates himself on the fact that for centuries France has led the world in culture, fashions, and cookery. If he is a Russian, he reflects that he belongs to the only nation which is truly international. If he is a Yugoslav, he boasts of his nation’s pigs; if a native of the Principality of Monaco, he boasts of leading the world in the matter of gambling.

Bertrand Russell, An Outline of Intellectual Rubbish (1943)

 

Pubblicato in Filosofia | Lascia un commento

Aforismi sulla logica

1

Per troppi è quella cosa che se la usano loro è “rigore”, e se la usano gli altri “cavillo”.

2

Richiede spalle larghe, cervello oliato, e palato fine.

3

Niente più dell’esprit de geometrie richiede l’esprit de finesse.

4

Esiste un uso retorico della logica.

5

Occhio che le fallacie spesso si applicano a boomerang, ché non è automaticamente logico chi parla/sa/insegna la logica.

6

“Logico” (aggettivo) è, nell’intenzione di molti parlanti, un insulto; “logicamente” è perlopiù avverbio deprezzante.

 

Pubblicato in Indefinita | Contrassegnato | Lascia un commento

Arbor philosophiae

La diairesis platonica, l’albero di Porfirio, di Descartes (Principia), la mimesi per cui pensando agli alberi ci si arborizza il pensiero. La maestra pone che tipo di questione? Lessicale, logica, metafisica, botanica? Le metafore dei rami. Petrus Ramus. L’albero, il tronco, i rami, le foglie, la radice. Ma forse l’essenza è avverbiale o verbale, l’albero arborizza, i.e. ramifica. Quel ramo del Lago di Como. Vedere gli alberi, non la foresta. La Urpflanze. L’albero dell’informatica e della tecnica gestionale: diagrammi ad albero. Albero di trasmissione, albero a camme. Ma ci sono le palme, non hanno rami. Si accresce l’albero mentale: gli alberi sono a) con rami e b) senza rami. E a) e b) sono due rami. E la radice è fondamentale non solo per via del fondazionalismo e dell’essenzialismo, ma anche perché “fissa” al suolo, perché è elemento fondamentale per quella regione della vita che include gli esseri non semoventi. Sicché gli alberi non parlano (Arist. Metaph, IV), non solo verbalmente, ma anche per mancanza di cinesi: sono venature dello spazio, prive di temporalità, non conversano. A meno che non si dia retta a Virgilio (e a Dante): la fantasia poetica dà loro voce e suoni. Non movimento, però, dunque più che arborizzare (ramificare) gli alberi radicano, punzonano lo spazio e lo percorrono come metastasi. Il rizoma.

Pubblicato in Filosofia | Lascia un commento

Uomini della conoscenza e credenti

Der Mensch der Erkenntniss muss nicht nur seine Feinde lieben, sondern auch seine Freunde hassen können.
Man vergilt einem Lehrer schlecht, wenn man immer nur der Schüler bleibt.

Ihr hattet euch noch nicht gesucht: da fandet ihr mich. So thun alle Gläubigen; darum ist es so wenig mit allem Glauben.
Nun heisse ich euch, mich verlieren und euch finden; und erst, wenn ihr mich Alle verleugnet habt, will ich euch wiederkehren.

(F.Nietzsche)

L’uomo della conoscenza deve non solo saper amare i suoi nemici, ma anche saper odiare i suoi amici.
Ripaga malamente il maestro chi resta per sempre scolaro.

Non vi eravate ancora cercati: ed ecco che mi trovaste. Così fanno tutti i credenti; per questo ogni fede vale così poco.
Ora vi ordino di smarrire me e di trovare voi stessi; e solo quando mi avrete tutti rinnegato tornerò da voi.

 

 

 

Espressioni problematiche e ambigue. Non in sé stesse, ma ove fossero fatte proprie; fossero enunciate in qualche hic et nunc. Ambigue per chi le declamasse e per chi le ascoltasse in quel medesimo hic et nunc: sono a doppio taglio. O, anche, sono come lame al contempo con e senza filo.
La mia esperienza delle cose e delle persone, invece, non è né problematica né ambigua al riguardo: appartengono a uno gnomologio insostenibile e senza corso, essendo il territorio che abito e percorro ricoperto di sagrestie e popolato di conventicole.

Pubblicato in Filosofia | Contrassegnato | Lascia un commento

Barbagianni di ieri e di oggi

Cesare Cases (Confessioni di un ottuagenario):
“Nella Rdt avevo un altro amico, Heinz Stolpe, che apparteneva alla ricca tribù dei tedeschi strampalati, dei *Käuze* o barbagianni, che fiorì fino al nazismo (che anzi fu costituito dalla sua sottospecie più pericolosa, alla Himmler) e fu poi implacabilmente soppressa dal processo di americanizzazione. Stolpe era l’autore di un libro mastodontico sulla concezione del medioevo nel giovane Herder (ma il titolo non era così semplice) (…).”

I barbagianni: a Roma sono, credo, “i soggettoni”.
Esemplare perfetto di Kauz era Heidegger, direi, prima e dopo il ’45 (dunque il pennuto era degnamente rappresentato anche nella Rft).
Ma l’americanizzazione, dice Cases, ha “soppresso” questa genia. Non poteva sapere, l’illustre germanista, che la stessa americanizzazione – oggi descritta e vocalizzata come il vento globalizzante che annulla le differenze e uccide le culture, che credete, mica bubbole -, si direbbe infine giunta al capolinea dialettico, al punto di rovesciarsi nell’opposto o di cedergli il campo. Pare, insomma, che i pluto-demo-giudei abbiano a sufficienza attizzato Nemesi, sicché i barbagianni adesso tornano a frotte. Non so in Germania, ma qui da noi è infatti tutto un pullulare di Käuze o soggettoni: da Salvini col rosario in mano, a Meloni, a quell’altro di Casapound che vuol conquistare la Libia e deportarci le faccette nere.

Pubblicato in Cultura/Società, Storia | Lascia un commento

Yirmiyahu Yovel (1935-2018)

Il 10 giugno è scomparso Yirmiyahu Yovel (1935-2018), professore emerito alla università di Gerusalemme. Ha scritto su Spinoza, la filosofia della storia di Kant e su Hegel, del quale ha tradotto e commentato la “Vorrede” alla Phänomenologie des Geistes; da questo lavoro è preso il brano che riporto. Vi si tratta dell’individualità come è tematizzata e agisce nella Fenomenologia.
Fu anche intellettuale pubblico, critico della politica di occupazione della Cisgiordania portata avanti dai governi israeliani.
N.B. Per la comprensione del riferimento a Krug, ricordo che costui aveva criticato la nascente filosofia idealistica fichtiana e schellinghiana sfidandola a “dedurre” l’esistenza delle cose – come la penna con la quale stava scrivendo -, essendo, a parer suo, compito della della filosofia l’eliminazione della contingenza.
Yirmiyahu Yovel
Pubblicato in Filosofia | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Fenomenologia della cultura in orbace: una risposta di Pasolini a un fascista

Nei primi anni ’60 Pasolini tenne sul settimanale Vie Nuove una rubrica di corrispondenza con i lettori (“Dialoghi con Pasolini”). Oggi mi è capitato di leggere l’accoppiata: lettera (anonima) – risposta di Pasolini, che riporto integralmente di seguito. Mi hanno entrambe colpito: la prima, perché, pur risalendo a mezzo secolo e più fa, ha uno stile che mi par riconoscere pressoché immutato nei pezzi dei pubblicisti di destra, che amano sfoggiare una tanto più esibita quanto più fessa elevatezza di cultura assieme a una lepidezza che si vuol arguta e corrosiva, ed è invece corriva come le barzellette costruite a sfondo sessuale. La risposta di Pasolini perché acuta lo è davvero, e vera. Ecco, giudichi da se chi voglia leggere:

 

Dannunziani in pantofole

Le dirò innanzitutto che ignoravo, fino a pochi mesi or sono, la Sua esistenza, il Suo nome e la Sua attività.
Ma ora, prima da qualche articoletto di cronaca nera e nerastra, poi da qualche «sfottitura» alla radio, poi ancora dalla lettura di qualche Suo scritto ho saputo della Sua esistenza e che Lei sarebbe uno scrittore, un critico, un poeta, ecc … E va bene.
Uno più uno meno non guasta ed anche se i Suoi atteggiamenti in sede estetico-letteraria; la Sua ben modesta dimestichezza con quello che è lo scrivere in un italiano non da lettori di Vie Nuove; i Suoi giudizi categorici e senza appello su cose, uomini e problemi che Ella non può conoscere, valutare e comprendere, mi lasciavano un po’ dubbioso sull’uomo e sullo scrittore (chiamiamolo così); d’altra parte certi Suoi «a fondo», certe Sue azzardatissime e fondamentalmente ingenue affermazioni, divertivano il vecchio polemista che sonnecchia e sogghigna in me.
Ma in queste ultime settimane, fra Lei personalmente (con quella iconoclastica e addirittura paradossale risposta a quel buon uomo di Teano che, bontà sua, chiede pietà per D’ Annunzio al Sig. P.P. Pasolini…) e la recensione del Bo ad un Suo libro apparsa su un recente Europeo, Lei ed il Suo esegeta, starei per dire il Suo agiografo, avete superato la misura. Altro che «crocianesimo generico e aberrante», altro che «disgusto stilistico da letterato a letterato» e simili corbellerie. Meno male, Sig. Pasolini, che il Vate è morto altrimenti con un aggettivo la ridurrebbe in poltiglia.
Pur con la sua retorica (ma era la Sua), pur con certe forme che a Lui si possono perdonare, pur con certi atteggiamenti che sanno di narcisismo, D’Annunzio è D’Annunzio e tale rimarrà nei secoli e ci vuol altro che cento Pasolini e mille Bo (e Ungaretti e Montale e Quasimodo e, insomma, chiunque abbia preso la penna in mano in quest’ultimo sessantennio) per poter fare un confronto, almeno per quanto riguarda la letteratura italiana.
E non voglio abbandonarmi a citazioni, non voglio infarcire la mia prosa di aggettivi, non voglio accennare a giudizi di letterati di primo piano, non voglio ricordare l’enorme patrimonio linguistico, il cadenzato scintillio di sue prose e poesie, il drammaturgo e l’Uomo del Timavo e del Carnaro: lascio a Lei e al suo contorto esegeta Bo il turibolo dell’incenso per altri Dei. Questo ha un altare troppo alto perché il mio povero incenso possa raggiungerlo, ma, La prego, abbia almeno Lei il senso delle proporzioni. Lei vede, Signor Pasolini, che io, non firmando, non esco dai limiti di una serena ed educata polemica, chiamiamola rettifica, e quindi non Le dico altro che vorrei dirLe se firmassi.
Se non firmo è perché il mio nome non Le direbbe nulla e perché non voglio accomunarlo al Suo e perché è dal 1944 che non scrivo più su un giornale o una pubblicazione e non voglio certo fare ora una «rentrée» su simile foglio. Ma Ella sente da come Le scrivo che non sono il solito «vile anonimo» e se pubblicherà la presente — tempo e voglia permettendo — Le scriverò ancora giacché tanto lei che il Suo amico Bo (Lei più di lui, per la verità) mi interessate, magari dal solo punto di vista, zoologico.
E giacché ci siamo, cerchi di evitare di fare il piccolo populista in ritardo di due generazioni, riveda e corregga il suo zoppicante italiano da Università popolare serale, dica al Bo (all’ermetico critico che ama scriver difficile a tutti costi: mi ricorda certe pagine di Celine scritte in «argot» e certe relazioni di giovani aggiornati a qualche congresso di correnti…) di non esagerare perché esagerando si casca nel ridicolo ed il ridicolo seppellisce.
E magari, non sarà male, creda, leggetevi tutti due un po’ di Guicciardini e di Guerrazzi, di Manzoni e di Verga, magari di Baldini e di Panzini, magari di Brocchi e di Gotta (… Non inorridite…), magari di Monelli e di Ansaldo. Mi abbia con i migliori saluti.

M.P.

 

L’anonimato in cui Lei cordialmente si cela, gentile signore, non è così fitto da nascondere il fatto che Lei è fascista. Nel ’44 ha smesso di pubblicare, e pour cause; poi è rimasto ai margini, e pour cause, e ora di nuovo qui, con tono distaccato, vivace e un po’ bohème a fare l’idealista. Si capisce dunque come lei ami D’Annunzio, si capisce come lei chiami questo poeta «l’Uomo del Timavo e del Carnaro», si capisce come l’irriti Bo, che, durante il periodo fascista, era esattamente il contrario di quello che voi volevate fosse un letterato, e si capisce, infine, come le sia antipatico io, furente nemico della istituzionale stupidità dei fascisti. Quanto a Baldini, a Panzini, Brocchi, Gotta, Monelli e Ansaldo, sono nomi che io le consiglio di scrivere sulla sua lapide.

 

Caro lettore, osserva un po’ la lettera a cui ho qui risposto in due parole. È un documento abbastanza interessante. Esso testimonia un tipo di fascismo non molto diffuso, eppure essenziale. Non so se il regime di Mussolini avrebbe potuto reggere per tanti anni se la stampa e la radio non avessero potuto contare su un numeroso gruppo di persone simili all’autore di questa lettera Esse rappresentavano il tessuto culturale del fascismo. Ossia a la follia fatta norma.
C’è in questa lettera un profondo e misterioso masochismo. Una persona di una certa cultura (l’anonimo è almeno laureato o diplomato), che conosce la letteratura classica, e bene o male, la storia nazionale, rifiuta in blocco tutta l’esperienza che da tale conoscenza può derivare per umiliarla e annichilirla in una specie di esaltata «riduzione» alla meschinità culturale piccolo-borghese, su cui il fascismo si basava e di cui viveva. Ora è ben nota l’ignoranza dell’italiano medio che pur abbia frequentato le scuole statali: e non c’è da meravigliarsi che tale sua scarsa coscienza culturale fosse pronta ad accettare l’aberrazione ideologica della reazione. Si capisce come un piccolo-borghese ignorante e conformista potesse accettare direi quasi con voluttà i narcisistici «pseudo-concetti» fascisti. Ma la cosa è meno facile da capire quando anziché di un professionista o di un impiegato si tratti di un uomo di cultura, un pubblicista, un giornalista, un letterato: il quale, almeno, dovrebbe possedere gli strumenti elementari per individuare e analizzare delle aberrazioni ideologiche e storiche come quella fascista.
È vero: la cultura italiana della prima metà del Novecento è una ben misera cosa: è un sottoprodotto provinciale della cultura europea post-romantica e decadente. Su questo Gramsci ha scritto delle pagine dal valore assoluto. Il fascismo stesso è un prodotto di tale cultura, ad alto livello. Il superuomo, Wagner, la regressione narcissica a un tipo di vita remota, ellenica o romana, l’esaltazione dell’io, il disprezzo per la massa, la vita inimitabile (eccoci arrivati a D’Annunzio): sono tutti elementi culturali ad alto livello destinati a formare il «gusto» fascista.
Ora, che cos’era un letterato, un professore universitario, un giornalista in orbace? Un fatto umoristico, prima di tutto, se si ha voglia di ridere. Ma in realtà la graduazione psicologica di tale depravazione non è poi così complicata: essa avveniva pressapoco così: il nostro uomo (mettiamo l’anonimo di questa lettera) era alle origini un dannunziano (ossia un decadente provinciale, con la testa piena di prosa d’arte, di narcissismo di cattiva lega, di letteratura classica intesa come gloria nazionale anziché come prodotto storico in evoluzione, insomma di umanesimo corrotto e accademico); il secondo gradino ideale era la trasformazione di tale titanismo sedentario e scolastico in smania d’azione (le imprese patriottiche, le divise, i manganelli, le marce: la riesumazione attiva di un passato morto e sepolto, nella fattispecie il legionario romano, il navigatore veneziano, ecc. ecc.); il terzo gradino… E qui bisogna ricordare che il piccolo-borghese italiano conformista ha come caratteristica principale, insieme alla sete di servilismo, la paura del ridicolo (la lettera dell’anonimo in questione parla chiaro: «… Non esagerate, perché esagerando si casca nel ridicolo ed il ridicolo seppellisce»). Il terzo gradino è dunque una «correzione» — verso la normalità benpensante, piccolo-borghese, «furba» — del mostro dannunziano, del guerriero in orbace. Così tutto va a posto. Il nostro anonimo si è messo la paglietta del «vecchio polemista che sonnecchia e sogghigna in lui»: e sente, con profonda consolazione, che un po’ di vivacità stilistica, un po’ di umorismo, un po’ di scapigliatura, un po’ di bohème, un po’ di cultura classica mettono a posto tutto, rettificano con una serie di correzioni eufemistiche e riduttive, l’eccessiva serietà dell’arcaico e bellicoso uomo ideale fascista. Insomma il nostro anonimo ha l’aria di dire, asciugandosi il sudore allegramente sotto la paglietta, con l’occhio iniettato di ironica felicità: «Ecco, vedete? Non è vero che i fascisti siano dei fanatici esagerati: io accetto tutto il fascismo, Eichmann compreso, certo! Però, io son qui, in paglietta, ho una famigliola e leggo i classici… Il mio odio contro i comunisti è addirittura cordiale! Io coi marxisti ci vado a cena e ci bevo all’osteria! La mia coscienza di tale odio è così profonda e sconfinata che ci rido!».
E così degli uomini di cultura, i cui nomi tuttora in Italia sono coperti di onore e rispetto, si vestivano in orbace, con la scusa che erano poi, a casa, dei dannunziani in pantofole.

Pier Paolo Pasolini. (Vie Nuove. 29 a. XVI, 22 luglio 1961)

22345213_1604484076241380_1069453525_o

Pubblicato in Letteratura italiana, Politica/Società, Storia | Contrassegnato , | Lascia un commento

Croce su Vico e il suo tempo

Significative – ossia importanti in sé stesse e documento della ampiezza e acutezza insieme della mente del loro autore – queste battute finali del libro di Croce su Vico.

Le riporto qui sotto, questo sito essendo poco più – forse poco meno – che una raccolta di appunti e promemoria per me; e perché credo, o mi auguro, che nel leggerle anche altri, come è accaduto a me, si sentano quasi fisicamente al cospetto della complessità dell’operazione di intendere altre menti, altre storie.

Croce descrive dunque le condizioni della cultura e dell’educazione al tempo di Vico:

E veramente non mai come in quella prima metà del settecento l’Europa fu così vasto deserto poetico: l’Italia si era ridotta al melodramma metastasiano; la Francia non aveva dato successori ai Corneille e ai Racine; in Ispagna, esaurita l’ultima grande manifestazione dello spirito nazionale, che fu il dramma, cominciavano l’imitazione francese e il razionalismo; l’Inghilterra sembrava dimentica affatto di aver dato i natali allo Shakespeare, e la Germania si trascinava anch’essa dietro l’imitazione neoclassica. E non solo non nasceva nuova poesia, ma non se ne desiderava. Seguendo Cartesio e il Malebranche, i filosofi professavano di ammortire tutte le facoltà dell’anima che provengono dal senso, e specialmente la facoltà d’immaginare, che detestavano come madre di tutti gli errori. I poeti erano da essi condannati col falso pretesto che narrassero «favole»: come se quelle favole non fossero le eterne proprietà degli animi umani, che i filosofi politici, economici e morali ragionano e i poeti presentano in vivi ritratti.

Particolareggia qualche riga sotto il quadro di decadenza culturale così delineato, facendo su questo sfondo risaltare la concezione, più complessa e ampia, che Vico elaborò in opposizione allo stesso. Quindi formula sulla visione vichiana il giudizio-bilancio che segue:

Altissimo ideale, senza dubbio, come perfettamente giuste tutte le critiche mosse al metodo di educazione e alle tendenze spirituali del tempo suo. Eppure, fra tante e mirabili verità che si lasciavano addietro di lungo tratto il secolo decimottavo, si sente nel Vico, pedagogista e critico, qualcosa di retrivo. Si sente che egli, esclusivamente sollecito delle sorti della grande e severa scienza e fisso l’occhio nella forma più compiuta dell’umanità, non intendeva il valore rivoluzionario di quello scetticismo e razionalismo e di quella ribellione al passato, che erano necessari strumenti di guerra contro re, nobili e preti; di quei ristretti e dizionarî, che dovevano mettere capo all’Enciclopedia; di quella scienza popolare, che preludeva al giornalismo; di quei libercoli per dame e per eleganti conversazioni, che avrebbero alimentato i salotti del secolo decimottavo e temprati gli spiriti al radicalismo giacobino. Si sente in lui, qui come nel suo sistema filosofico, il cattolico che è avvinghiato al filosofo, il pessimista cristiano che grava sul dialettico dell’ immanenza. Egli non sa scorgere il progresso nei suoi avversarî, e perciò non li riconosce quali veramente erano, a lui inferiori ma gradini da salire per giungere a lui, e che egli stesso avrebbe dovuto salire per intendere e posseder meglio sé stesso.

(Benedetto Croce, La filosofia di G.B Vico, prima ediz. 1911. Cap. XIX)

Pubblicato in Filosofia | Contrassegnato , | Lascia un commento